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lunedì 5 aprile 2010

Illegittimo l’accertamento basato unicamente sugli studi di settore



Lo studio di settore è un semplice parametro

L’accertamento basato esclusivamente sugli studi di settore viola il principio di capacità contributiva: lo ha affermato la Commissione tributaria regionale di Roma, sezione staccata di Latina, con sentenza del 4 marzo scorso.

La sentenza in commento, avendo ad oggetto un argomento molto discusso quale per l’appunto gli studi di settore, ben si presta ad alcune riflessioni.

A tal fine, è, innanzitutto, opportuno rilevare la fonte normativa degli studi di settore, che va ricercata negli articoli 62-bis e 62-sexies, comma 3, D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427). In particolare, l’art. 62-sexies, comma 3, del decreto citato, che rappresenta la norma di riferimento in tema di accertamento da studi di settore, stabilisce che gli accertamenti (analitici-induttivi) di cui agli articoli 39, comma 1, lettera d), D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (in tema di imposte dirette) e 54, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (in tema di IVA) “possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore”.

Secondo tale previsione normativa, dunque, lo studio di settore è investito semplicemente della funzione di agevolare l’espletamento da parte dell’Amministrazione finanziaria della funzione accertativa, permettendo alla stessa, in presenza di gravi incongruenze, di procedere ad accertamento analitico-induttivo.

Conseguentemente, quindi, lo studio di settore è soltanto un semplice e puro indice di riferimento per consentire all’Ufficio fiscale di adottare il particolare tipo di accertamento analitico-induttivo, nei casi e alle condizioni tassativamente previsti dagli artticoli 39, comma 1, lettera d), D.P.R. n. 600/1973 e 54, D.P.R. n. 633/1972 (e successive modifiche ed integrazioni).

Lo stesso art. 62-sexies, comma 3, cit., difatti, richiede espressamente, per legittimare l’accertamento, che si verifichi una grave incongruenza tra i ricavi o i compensi dichiarati dal contribuente e quelli fondatamente desumibili “dagli” studi di settore.
Questo perché, se il legislatore avesse voluto attribuire a questi ultimi valore di presunzione legale relativa, avrebbe potuto semplicemente stabilire che gli accertamenti possono essere fondati “sugli” studi di settore.
Pertanto egli, non ritenendo sufficiente il risultato degli studi di settore come fatto noto per determinare acriticamente i risultati conseguiti dal contribuente, ha richiesto la presenza di “gravi incongruenze” tra questi ultimi e gli studi di settore.

Orbene, ciò premesso, è a questo punto opportuno rilevare che la sentenza in commento condivide pienamente quest’interpretazione che esclude la legittimità dell’accertamento basato unicamente sugli studi di settore.

A sostegno di tale tesi, difatti, in essa sono riportate, in primis, le indicazioni fornite sull’argomento dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 5/E del 23 gennaio 2008, secondo cui “la stima effettuata mediante gli indicatori di normalità economica in parola non legittima, pertanto, l'emissione di atti di accertamento automatici, esclusivamente basati sulla stima medesima”.

Ad ulteriore conferma di ciò, poi, è riportato un passo della sentenza n. 18983 del 10 settembre 2008 della Corte di Cassazione, secondo cui "in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la procedura di determinazione induttiva dell'ammontare dei ricavi e dei compensi sulla base di coefficienti presuntivi […] consente all'Ufficio, ove occorra, di integrare o addirittura sostituire i detti coefficienti con elementi particolari, propri del contribuente sottoposto a verifica, con esclusione, quindi, di ogni automatismo dei coefficienti; ciò in quanto il principio della flessibilità degli strumenti presuntivi trova origine e fondamento nell’articolo 53 della Costituzione, non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica a prescindere dalla capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica…".
E’ in ragione di tali argomenti che, quindi, i giudici di merito condividono le motivazioni addotte in appello circa l’illegittimità di un avviso di accertamento che, basandosi esclusivamente sugli studi di settore, riteneva inammissibile che un’azienda dichiarasse un reddito inferiore di un proprio lavoratore dipendente.

Le stesse, in definitiva, sono pienamente condivisibili, poiché, in ragione di quanto enunciato, lo studio di settore è un semplice parametro. Esso, difatti, indirizza l’attività di selezione e controllo degli Uffici fiscali, i quali, tuttavia, se decidono di adottare il particolare tipo di accertamento analitico-induttivo, devono motivare adeguatamente e dimostrare le “gravi incongruenze” tra il reddito dichiarato e gli studi di settore, senza alcuna inversione dell’onere della prova da parte del contribuente, dato che si è in presenza di presunzioni semplici e non legali, successivamente, però, proprio perché lo studio di settore, di per sé, non determina alcun maggior reddito, per determinarlo e quantificarlo, essi devono servirsi di ulteriori elementi, del tutto mancanti nel caso de quo, al punto di legittimare l’annullamento del relativo accertamento.
(Commissione tributaria regionale Lazio, Sentenza, Sez. XXXIX, 04/03/2010, n. 287)
Fonte Il quotidiano Ipsoa www.ipsoa.it

3 commenti:

  1. Era ora !
    Ho sempre ritenuto assurdo questo sistema. In origine questo meccanismo era stato ideato per rilevare un'anomalia da accertare in seguito ... in pratica è diventato un accertamento vero e proprio !Hanno stabilito che devo guadagnare di più...per un "misterioso algoritmo" in base al quale vien fuori qual'è il reddito che avresti dovuto avere...
    E non ho mai compreso i commercialisti che consigliano di trovare un compromesso se vuoi evitare un contenzioso questa è la via più breve perche' se trovi un giudice.........così, cos', magari ti da anche torto.....
    Torto per rifiutare di pagare tasse su qualcosa che non ho guadagnato?
    Quindi ora diffido dei commercialisti perchè se accetti un patteggiamento loro cmq ti faranno pagare qualcosa per l'assistenza (?) e magari evitano che venga fuori qualche loro mancanza nella tua contabilità...

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  2. Ora ci ridaranno volontariamente tutti i soldi extra che ci hanno spolpato o si dovra' fare un'azione legale ?

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  3. Concordo sull'assurdità del meccanismo, che poi in molti casi andava a discapito di persone che già pagavano le tasse sull'intero reddito.
    Quanto alle strategie da seguire in questi casi, la cosa non è generalizzabile e andava e va vista caso per caso.
    Non butterei la croce solo sui professionisti, che in molti casi sono vittime essi stessi del meccanismo.

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