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martedì 29 ottobre 2013

Si riepiloga quanto la Regione Toscana dispone in materia di Attestato di Prestazione Energetica APE.

La non redazione dell'attestato è fattore di nullità di atti di vendita locazione comodato ecc, ecc.

 

 

 

Certificazione energetica in Toscana

Regole per la certificazione energetica degli edifici: le regole vigenti in Toscana

IN EVIDENZA
Il Decreto Legge 4/06/2013, n. 63 "Disposizioni urgenti per il recepimento della Direttiva 2010/31/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 maggio 2010, sulla prestazione energetica nell'edilizia per la definizione delle procedure d'infrazione avviate dalla Commissione europea, nonché altre disposizioni in materia di coesione sociale" convertito con importanti variazioni dalla Legge 90/2013 (G.U. 03/08/2013 n. 181, entrata in vigore il 04/08/2013), modifica profondamente obblighi e sanzioni in materia di certificazione energetica.
Si segnala al riguardo che il testo della LR 39/2005 e del Regolamento regionale 17/2010 non sono stati ancora aggiornati alla L. 90/2013, le cui disposizioni di diretta applicabilità sono comunque da rispettarsi.

Si ricordano le tappe della Certificazione Energetica degli edifici:
  • Dal 1° luglio 2009 in tutta Italia era previsto l'attestato di certificazione energetica nel caso di edifici di nuova costruzione nonché nel caso di compravendita di immobili (articolo 6 del Dlgs 192/2005)
  • Le modalità, a livello nazionale, per la certificazione energetica degli edifici sono (ancor oggi) contenute nel decreto ministeriale 26/06/2009 "Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici". Per saperne di più consulta le pagine di Edilportale
  • Il 18 marzo 2010 era entrata in vigore in Toscana una specifica disciplina regionale sulla materia: gli articoli da 23 a 23 sexies della legge regionale 39/2005 e il relativo regolamento regionale sulla Certificazione Energetica degli edifici (DPGR 25 febbraio 2010, n. 17/R) riguardante anche le locazioni
  • Il decreto legislativo 28/2011, articolo 13, aveva dal 29/03/2011 imposto in tutta Italia che, sia nei casi di compravendita che di locazione, siano fornite all'acquirente o locatario durante la trattativa le informazioni sulla certificazione energetica dell'immobile
  • Già con il decreto MISE 22/11/2012 (pubblicato su Gazzetta Ufficiale n. 290 del 13-12-2012) di modifica del decreto 26/06/2009 succitato, era stata abrogata la possibilità del proprietario di autodichiarare la pessima qualità energetica dell'edificio (possibilità inizialmente prevista dal paragrafo 9 dell'allegato A del DM 26/06/2009)
  • I soggetti che possono rilasciare la certificazione energetica degli edifici sono stati individuati inizialmente dall'allegato III al decreto legislativo 115/2008. A partire dal 12/07/2013 sono individuati dal DPR 16/04/2013 n. 75  (vedi:chi è il certificatore energetico)

Oggi la Legge 90/2013 ha:
  • ampliato gli obblighi di certificazione energetica degli edifici
  • prescritto che gli annunci di vendita e locazione degli immobili devono riportare la prestazione energetica degli stessi. Vedi: prestazione energetica negli annunci immobiliari
  • imposto conseguenze pesanti per l'omissione degli obblighi e la mancanza dell'attestato (sanzioni amministrative e anche la nullità degli atti di compravendita e locazione)
  • rinominato l'attestato di certificazione energetica in "Attestato di Prestazione energetica" nonché previsto che lo stesso è firmato dal tecnico come "dichiarazione sostitutiva di atto notorio"

Vi sono particolarità della disciplina regionale che permangono rispetto a quella nazionale?

Innanzitutto va chiarito che:
  • la disciplina regionale in materia non tocca né le metodologie di calcolo per la certificazione, né l'individuazione della figura del certificatore: su tali temi si seguono pienamente le norme statali (per le metodologie il DM 26 giugno 2009 "Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici", per la figura del certificatore il DPR 16/04/2013 n. 75)
  • sono in vigore, fino alla eventuale emanazione di un nuovo modello, i modelli di attestato di certificazione allegati al DM 26 giugno 2009
  • le disposizioni regionali inerenti la "targa energetica" (art. 7 del regolamento) troveranno applicazione solo dopo l'approvazione con decreto dirigenziale del modello di targa energetica
  • le disposizioni regionali inerenti il sistema informativo sull'efficienza energetica troveranno applicazione solo dopo il varo di tale sistema informativo. In particolare fino al varo di tale sistema gli attestati di prestazione dovranno essere presentati ai Comuni in forma cartacea

Vediamo quindi punto per punto quali sono le modalità vigenti in Toscana per la Certificazione Energetica degli immobili

1) I casi in cui è obbligatorio dotare l'immobile di un attestato di prestazione energetica – APE
Le disposizioni regionali (art. 23-bis della lr 39/2005 e articoli 3 e 4 del regolamento 17/2010) avevano ampliato il campo di obbligatorietà della Certificazione Energetica rispetto alla normativa nazionale originaria.
Ora la Legge 90/2013 è andata in generale anche oltre quelle disposizioni.

Secondo il nuovo dlgs 192/2005 riscritto dalla Legge 90/2013 si devono dotare di APE gli edifici o le unità immobiliari:
  • costruiti (si segnala che la lettura completa della norma fa intendere per "costruiti" gli edifici/immobili di nuova costruzione)
  • sottoposti a "ristrutturazioni importanti" (vedi la definizione di "ristrutturazione importante" all'art. 2 del dlgs) se tali lavori comportano il rilascio di un nuovo certificato di agibilità/abitabilità
  • venduti (si segnala che la lettura completa della norma fa intendere nel "venduti" i trasferimenti a titolo oneroso in genere. Vedi al riguardo anche lo studio 07/08/2013 sull'A.P.E. pubblicato dal Consiglio Nazionale del Notariato)
  • locati ad un nuovo locatario (si segnala che i contratti di nuova locazione senza allegato l'APE sono nulli)

Vi sono esclusioni equivalenti alla normativa regionale:
  • gli edifici che risultano non compresi nelle categorie di edifici classificati sulla base della destinazione d'uso di cui all'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 26 agosto 1993, n. 412, il cui utilizzo standard non prevede l'installazione e l'impiego di sistemi tecnici di climatizzazione, quali box, cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi, strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi
  • gli edifici industriali e artigianali quando gli ambienti sono riscaldati per esigenze del processo produttivo o utilizzando reflui energetici del processo produttivo non altrimenti utilizzabili

Vi sono esclusioni più ampie della normativa regionale:
  • edifici rurali non residenziali non solo se riscaldati dal processo produttivo ma anche se semplicemente sprovvisti di impianti di climatizzazione
  • i fabbricati isolati con una superficie utile totale inferiore non a 25 mq ma a 50 mq
  • anche gli edifici adibiti a luoghi di culto e allo svolgimento di attività religiose
2) L'attestato di qualificazione energetica – AQE
Il decreto legislativo 192/2005 (art. 8 comma 2) prevede anche un attestato di qualificazione energetica dell'edificio così come realizzato (detto AQE), da inviare al Comune con la dichiarazione di fine lavori. Quindi fino ad oggi in alcuni casi (per es. un nuovo edificio) è obbligatorio acquisire sia l'ACE che questo AQE
La legge regionale stabilisce che l'attestato di certificazione energetica (ora APE) tiene luogo dell'attestato di qualificazione, e che viene presentato al Comune con la certificazione di fine lavori (certificazione prevista dall'art. 86 della LR 1/2005). Quindi basterà presentare al Comune, allegato alla certificazione di fine lavori, l'attestato di prestazione energetica.
3) Come si fa a certificare un immobile
Si deve distinguere il caso in cui si deve certificare un immobile perché viene costruito o completamente ristrutturato, dal caso in cui lo si deve certificare per una vendita o una locazione.
a) Per attestare la prestazione energetica in occasione di lavori edilizi, prima dell'inizio lavori va scelto un certificatore energetico. Infatti il regolamento regionale precisa che il nominativo del soggetto certificatore è indicato nella comunicazione di inizio lavori. Il progettista gira una copia del progetto al certificatore. In corso d'opera il direttore lavori informa il certificatore sulle principali fasi di costruzione e lo stesso certificatore può fare ispezioni in cantiere. In attesa del varo da parte della Regione dell'APE come documento digitale, il certificatore redigerà l'attestato in cartaceo in più originali, in modo che uno rimanga al committente e uno venga trasmesso al Comune insieme alla dichiarazione di fine lavori (prevista dall'art. 86 della LR 1/2005) Infatti al momento in cui il professionista provvede alla certificazione di fine lavori (ed eventuale agibilità/abitabilità) di cui all'articolo 86 della l.r.1/2005, va trasmesso al Comune anche l'APE, e nel certificato di abitabilità/agibilità di cui al citato articolo 86 della l.r.1/2005 sarà fatta esplicita menzione dell'attestato di certificazione
b) Per attestare la prestazione energetica in occasione di compravendita/locazione il venditore/locatore incarica da subito un certificatore energetico. In attesa del varo da parte della Regione dell'APE come documento digitale, il certificatore, dopo aver fatto i controlli necessari, redigerà l'attestato in cartaceo in più originali. Infatti uno lo consegna al committente e uno lo trasmette al Comune (vedi gli obblighi di trasmissione al punto 5). Già gli annunci commerciali per vendere o locare un immobile, ai sensi dell'art. 6 del DL 63/2013, devono riportare la prestazione energetica dello stesso immobile. E ai sensi dello stesso articolo fin dall'inizio delle trattative il proprietario deve rendere disponibile l'APE al compratore/nuovo locatario e consegnarlo alla fine delle medesime. Negli atti di vendita o trasferimento di immobili a titolo gratuito o nei nuovi contratti di locazione andrà poi inserita apposita clausola con la quale l'acquirente o il conduttore danno atto "di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato, in ordine alla attestazione della prestazione energetica degli edifici" e va allegato l'APE pena la nullità del contratto
4) Cosa succede se, nei casi in cui è obbligatorio l'attestato di certificazione, questo non viene acquisito?
Bisogna distinguere fra gli obblighi di dotarsi dell'attestato di certificazione a seguito di lavori edilizi e gli obblighi che invece derivano da un trasferimento di proprietà o locazione.
a) Se l'obbligo deriva da lavori edilizi attenzione che il certificato di cui all'articolo 86 della L.R. n. 1/2005, è inefficace a qualsiasi titolo qualora non sia presentato al Comune l'attestato di certificazione energetica. La Legge 90/2013 prevede anche pesanti sanzioni amministrative
b) In caso di vendita (trasferimento a titolo oneroso) di immobile o di nuova locazione, la Legge 90/2013 prevede sanzioni amministrative ma anche la nullità dei contratti di vendita/locazione
5) Gli obblighi di trasmissione dell'ACE alla Pubblica Amministrazione
Il DM 26 giugno 2009 prevede che sia trasmessa alla Regione copia dell'attestato di certificazione energetica (ora APE) entro i 15 giorni successivi alla consegna al richiedente, a cura del certificatore. Tale obbligo, fino alla creazione di un sportello regionale on line, rimane (vedi art. 26 del regolamento). Vedi: trasmissione alla Regione di copia dell' attestato di prestazione energetica
A partire dall'entrata in vigore del regolamento, oltre alla trasmissione alla Regione di una copia dell'attestato, scatta un ulteriore obbligo di trasmissione: quando viene redatto un APE dovrà essere firmato almeno in due originali, perché oltre a quello consegnato al richiedente un altro dei due originali dovrà essere trasmesso al Comune di competenza.
Come trasmettere l'APE al Comune? Vi sono due casi:

a) se l'APE è prodotto a seguito di lavori edilizi un originale dell'attestato sarà trasmesso al Comune insieme al certificato di cui all'art. 86 della L 1/2005
Si segnala che, nel caso i lavori edilizi riguardino una pratica gestita dallo Sportello Unico Attività Produttive SUAP, anche l'APE passerà come tutta l'altra documentazione dallo stesso SUAP (il regolamento dice "nel caso in cui l'attestato di certificazione energetica sia relativo ad impianti produttivi, è trasmesso attraverso la rete regionale degli sportelli unici per le attività produttive")
b) se l'APE è prodotto ai fini di una compravendita o di una locazione un originale dell'attestato, una volta firmato dal certificatore, sarà trasmesso senza indugio (dal certificatore o dal proprietario stesso) al Comune

6) La vigilanza del Comune
Competenti a vigilare sulla attività di certificazione energetica e sugli attestati prodotti sono i Comuni ai sensi dell'art. 3ter della lr 39/2005 e dell'art. 12 del regolamento.


giovedì 3 ottobre 2013

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 settembre 2013, n. 22020

Irap professionisti e dipendenti part-time

Tributi – IRAP – Autonoma organizzazione – Assoggettabilità dell’imposta – Professionista – Dipendente part-time – Nessun aumento della capacità produttiva
Svolgimento del processo e motivi della decisione
1. L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Puglia- Bari 5/03/10 del 17 febbraio 2010 che accoglieva solo parzialmente l’appello dell’Ufficio ribadendo la spettanza alla dott.sa F.T. del rimborso IRAP relativamente agli anni 1999 (esclusa la prima rata)- 2000- 2004.
2.
La contribuente si è costituita in giudizio.
3. E’ stata depositata una relazione che valutava il ricorso come infondato.
In quanto la Amministrazione non evidenzia nel suo ricorso elementi di fatto tali da poter determinare la illogicità o inadeguatezza della motivazione del giudice di merito. La presenza di modeste spese per emolumenti a terzi (così come accertato dalla CTR) non appare sufficiente per determinare l’automatica sottoposizione ad IRAP della professionista; specie a fronte della pochezza di detti compensi che non superano le 400.000 lire mensili. Giova del resto sottolineare che la presenza di dipendenti non è di per sé elemento costitutivo della “autonoma organizzazione” bensì un elemento presuntivo da cui può essere dedotta la sussistenza della “autonoma organizzazione”.
4. Il Collegio, letta la memoria depositata dalla Avvocatura, ha ritenuto opportuno discutere la controversia in pubblica udienza.
5. La Avvocatura sostiene che “in sintesi, la Commissione di secondo grado non ha sufficientemente motivato la decisione impugnata con riferimento alle deduzioni dell’amministrazione appellante suffragate dalle risultanze probatorie emergenti dalle dichiarazioni dei redditi attraverso l’analisi dei quadri RE, omettendo ogni valutazione sull’incidenza che i compensi per lavoro dipendente per le annualità dal 1998 al 2004 (come riportate negli allegali quadri RE delle dichiarazioni dei redditi prodotti dal ricorrente) hanno sull’attività lavorativa del contribuente, ritenendo occasionali le collaborazioni rese da terzi (nella specie medici sostituiti), che, invece, dall’esame degli atti risultano essere continuative”.
6. II Collegio, premesso che è assolutamente pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che i compensi versati a medici che sostituiscano il professionista non determinano una “autonoma organizzazione” sottoposta ad Irap, ritiene di dover respingere il ricorso anche sotto il diverso profilo della sussistenza di un dipendente part-time.
7. Ritiene il Collegio che si debbano prender le mosse dai principi costituzionali, così come – da ultimo- enunciati nella sentenza della Corte Costituzionale n. 223 del 11 ottobre 2012 che ha dichiarato l’illegittimità della norma, ritenuta di natura tributaria, che ha imposto un particolare onere fiscale sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti che superino un certo “tetto”. Afferma la Corte che gli artt. 3 e 53 della Costituzione impongono al legislatore un ” uso ragionevole dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di determinare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’ imposizione» (sentenza n. 111 del 1997).
E’ cioè consentito al legislatore di sottoporre una parte dei contribuenti a specifici oneri maggiori e diversi rispetto a quelli che colpiscono ogni forma di ricchezza, ma tale specifica imposizione deve poggiare su una qualche razionale giustificazione, che può discendere -in primo luogo- dalla maggiore “ricchezza” dei contribuenti colpiti (il proprietario di immobili che ricavi da essi un certo reddito è senza dubbio “più ricco” di chi percepisca il medesimo reddito come frutto dì lavoro dipendente), ma anche dalla circostanza che i contribuenti sottoposti ad ulteriori specifici oneri usufruiscono in misura maggiore di determinati pubblici servizi; cagionando con la loro attività l’esigenza di maggiori spese pubbliche.
Quest’ultima ipotesi sì verificava ad esempio nella Imposta Comunale sulle Attività produttive (ICIAP) abolita dalla legge istitutiva dell’IRAP, l’ICIAP trovava cioè (in base alla sentenza n. 238 del 13 maggio 1993 della Corte Costituzionale) giustificazione costituzionale nella “particolare utilizzazione dei servizi comunali da parte dei soggetti”. Ma la sottoposizione ad Irap non è rapportata alla (sia pure solo potenziale) maggiore fruizione dei servizi pubblici.
Dunque l’IRAP deve trovare giustificazione in una specifica capacità contributiva del soggetto colpito dalla imposta; e la cennata esigenza di ragionevolezza che eviti ingiuste discriminazioni ha determinato una modifica legislativa che appare determinante ai finì della decisione della presente controversia.
Nel suo testo originario, l’art. 2 del D. Leg, 446/1997 assoggettava alla Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP) “l’esercizio abituale di una attività diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”; e quindi colpiva ogni attività degli esercenti professioni intellettuali che possedesse il requisito della “abitualità”, cioè non fosse esercitata occasionalmente.
Il D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137, ha però aggiunto nel citato art. 2 la specificazione secondo cui la attività deve essere “autonomamente organizzata” (quando non sia riferibile a società) Queste due parole sono state introdotte allo scopo di inserire un fattore di razionalità costituzionale nel sistema, ancorché tale inserimento abbia determinato una deroga alla coerenza logica del tributo che, nella sua versione originaria, coinvolgeva- senza deroghe- ogni forma di attività produttiva non occasionale. E’ infatti pacifico che la riforma del 1998 ha escluso dall’applicazione dell’IRAP anche professionisti con elevati guadagni quando alla realizzazione di tali guadagni non concorra alcuna organizzazione o concorra una organizzazione ad essi non riconducibile (come accade nel caso dell’attore che reciti in una struttura di spettacolo da altri organizzata e diretta, del chirurgo libero professionista che operi in una clinica altrui, di chi svolga attività di amministratore o sindaco utilizzando le strutture messe a disposizione dalla azienda amministrata) La modifica del 1998 mirava però a prevenire un intervento del Giudice delle leggi analogo a quello che aveva in passato escluso dall’applicazione dell’ILOR la quasi totalità dei lavoratori autonomi (sentenza n. 42/1980). Ed infatti la sentenza della Corte Costituzionale n. 156 del 10 maggio 2001, ha ritenuto che l’imposta in parola sia legittima proprio perché non colpisce qualunque attività produttiva, ma solo quelle che siano ”autonomamente organizzate” ; di guisa che non risulta un’”imposta sul (mero) lavoro autonomo” ma un’imposta sulla capacità produttiva che deriva dalla “autonoma organizzazione”, che deve far capo al contribuente. E la “autonoma organizzazione” deve costituire un qualcosa di ulteriore e diverso rispetto a quella razionale autoorganizzazione che necessariamente accompagna qualunque attività professionale svolta abitualmente, deve essere un “quid pluris” che giustifichi l’imposizione ai “lavoratori autonomi organizzati” di un onere fiscale che non colpisce invece i lavoratori subordinati (e che coinvolge tutto il loro reddito professionale e non solo la quota parte ricollegabile alla autonoma organizzazione). Di conseguenza, la Corte Costituzionale ha demandato ai giudici tributari (ed alla Cassazione) il compito di definire quando il contribuente disponga dì una propria “autonoma organizzazione”, in modo da garantire una applicazione “ragionevole” della norma in questione. E’ d’altronde ovvio che i criteri scolpiti negli artt. 3 e 53 della Costituzione debbono essere tenuti presente anche dai giudici, chiamati a dar ragionevolezza alle applicazioni de! diritto vivente, se necessario attraverso un’interpretazione “costituzionalmente orientata”.
In quest’ottica sono state abbandonate quelle chiavi interpretative che vanificano la modifica legislativa in questione; ritenendo sufficienti per l’applicazione dell’imposta requisiti che sostanzialmente costituiscono una mera “autoorganizzazione” razionale del lavoro. Con la conseguenza di determinare una ingiustificata sperequazione ai danni dei lavoratori autonomi, gravati da un’imposta che risparmia i lavoratori dipendenti (rectius che per i lavoratori dipendenti grava sui datori di lavoro). La Corte di Cassazione ha cioè fin dalle prime pronunce decise nella udienza dell’otto febbraio 2007 respinto la tesi della Amministrazione secondo cui le parole “autonoma organizzazione”, introdotte nell’art. 2 del D.Lgs. 15 dicembre 1997. n. 446 dal D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137 costituirebbero soltanto un chiarimento ed una specificazione del requisito della “abitualità” già presente nel testo del 1997. Di guisa che la “autonoma organizzazione” ben potrebbe estrinsecarsi “nell’impiego dell’intelligenza e della cultura, nella (mera) capacità di acquisire clientela, di ottenere credito, di competere, di promuovere ogni legittima iniziativa”.
Per altro verso è stata respinta anche la tesi prospettata da molti contribuenti, secondo cui dovrebbe intendersi per “autonoma organizzazione” una struttura capace di produrre di per sé sola reddito, prescindendo dall’apporto del professionista o del lavoratore autonomo. Perciò l’imposta non sarebbe mai dovuta, ad esempio, dai singoli che esercitino le cosiddette “professioni protette”, in quanto il venir meno del professionista determinerebbe l’automatica cessazione dell’attività e l’azzeramento del reddito . Questa Corte di legittimità ha affermato che “non è di ostacolo alla sussistenza dei requisiti per l’applicazione dell’Irap il fatto che l’apporto del titolare sia insostituibile o per ragioni giuridiche o perché la clientela si rivolga alla struttura in considerazione delle particolari capacità del titolare stesso” (sentenza n. 5011 del 5 marzo 2007, cui adde, ad esempio, la sentenza n. 8171 del 2 aprile 2007). Ciò in quanto l’impostazione proposta dai contribuenti escluderebbe dall’ambito dell’Irap pressoché tutte le attività professionali e di lavoro autonomo; tale soluzione è in contrasto con l’impalcatura della legge che prevede l’applicazione dell’imposta a coloro che esercitino arti e professioni di cui all’art. 49 comma 1 del Tuir (approvato con D.P.R. 22 dicembre 1977, n. 917) ogni qual volta vi sia una “autonoma organizzazione”.
Si afferma quindi con giurisprudenza che può dirsi pacifica che l’IRAP coinvolge una capacità produttiva che può non essere compiutamente autonoma (cioè derivare da strutture autosufficienti) ma deve pur sempre essere “impersonale ed aggiuntiva” rispetto a quella propria del professionista (determinata dalla sua cultura e preparazione professionale) e colpisce un reddito che contenga una parte aggiuntiva di profitto, derivante da una struttura organizzativa “esterna”, cioè da “un complesso di fattori che, per numero, importanza e valore economico, siano suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al know-how del professionista (lavoro dei collaboratori e dipendenti, dal numero e grado di sofisticazione dei supporti tecnici e logistici, dalle prestazioni di terzi, da torme di finanziamento diretto ed indiretto etc..)”, cosicché è “il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista… ad essere interessato dall’imposizione che colpisce l’incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività auto organizzata del solo lavoro personale” (Cass. Trib. 15754/2008; vedi da ultimo la sentenza n. 19769 del 28 agosto 2013 ).
Queste affermazioni di principio sfociano -secondo un filone giurisprudenziale- nella tesi secondo cui il richiesto surplus idoneo a determinare l’assoggettamento ad IRAP può essere costituito dalla presenza di un dipendente stabile; anche solo part-time, anche solo con funzioni meramente accessorie (pulizia).
Viene cioè più volte riprodotta la massima secondo cui ” il requisito “dell’autonoma organizzazione”, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congniamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui” (cfr., ex pluribus, la sentenza n. 3676 del 16 febbraio 2007).
Spesso la affermazione non è rilevante al fine del decidere perché in concreto il contribuente non si avvale in modo ”non occasionale” di lavoro altrui, ma in varie ipotesi essa costituisce il punto di partenza per una pronuncia sfavorevole al contribuente, sia pure sovente di cassazione con rinvio, pur a fronte di un dipendente.
E’ però altresì presente nella giurisprudenza di questa Corte un indirizzo che non ritiene un dipendente costituisca fattore di per sé solo decisivo ed insuperabile per determinare il riconoscimento della “stabile organizzazione”
Si può in primo luogo ricordare la sentenza 5009/2007, secondo cui “si ha esercizio di “attività autonomamente organizzata” soggetta ad Irap ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997 quando l’attività abituale ed autonoma del contribuente dia luogo ad un’organizzazione dotata dì un minimo di autonomia che potenzi ed accresca la capacità produttiva del contribuente stesso. Di guisa che l’imposta non risulta applicabile ove in concreto i mezzi personali e materiali di cui si sia avvalso il contribuente costituiscano un mero ausilio della sua attività personale, simile a quello di cui abitualmente dispongono anche soggetti esclusi dall’applicazione dell’Irap (collaboratori continuativi, lavoratori dipendenti)” (nei medesimi termini è la sentenza n. 8170 del 2 aprile 2007). Ed ancora la sentenza n. 3675 del 16 febbraio 2007, nel cassare la sentenza di merito che aveva escluso dall’imponibilità Irap un professionista che svolgeva attività “protetta” dall’iscrizione air albo professionale, manda al giudice di merito di procedere all’accertamento circa “la sussistenza o meno di una struttura di supporto all’attività del contribuente”, appurando “se il ricorrente utilizzi, nell’esercizio della propria professione, beni strumentali o lavoro altrui e in quale misura tali fattori incidano sui costi e gli oneri esposti dal contribuente (per esempio, attraverso l’analisi del Quadro RE della dichiarazione dei redditi) in relazione all’esercizio della sua professione”. La sentenza n. 3675 assoggetta dunque ad Irap “l’attività che presenti un contesto organizzativo esterno anche minimo, derivante dall’impiego di capitali e/o di lavoro altrui, che potenzi l’attività intellettuale del singolo”. E – in parallelo – la sentenza n. 5258 del marzo 2007 richiede “una struttura, la quale prescinde dalla qualità o quantità dei fattori, ma va valutata in relazione al potenziamento della mera attività personale del professionista”.
Come si vede, le sentenze da ultimo indicate non escludono che la presenza di anche solo un dipendente possa costituire indizio di ”stabile organizzazione”, rimettono però la concreta valutazione al giudice di merito, escludendo un automatismo dipendente-soggezione a IRAP (cfr. la sentenza n. 22592 dell’11 dicembre 2012).
Il mancato riferimento, come fattore sufficiente a determinare dì per sé solo l’applicazione dell’IRAP, della circostanza che il professionista si avvalga dell’opera di un dipendente è, ad esempio, particolarmente significativo nell’ambito della pronuncia 5012/2007, in quanto risultava – in fatto – pacifico che il professionista (avvocato) disponeva di locali – ancorché in locazione -e di un dipendente con mansioni di segretario.
Vi sono, del resto, precedenti specifici secondo cui la presenza dì un solo dipendente part-time addetto alla porta ed alla pulizia dello studio non costituisce di per sé un elemento tale da concretizzare il presupposto di autonoma organizzazione come previsto dalla normativa I.R.A.P.” (ordinanza n. 18472 del 4 luglio 2008); cui si può affiancare, tra l’altro, l’ordinanza n, 14304 del 8 agosto 2012 secondo cui “deve essere confermata la sentenza di merito che ha escluso la applicabilità dell’IRAP ad un ragioniere che usufruisca di un dipendente part-time per poche ore (10) alla settimana” (adde da ultimo l’ordinanza n. 14304 del 8 agosto 2012).
Sembra al Collegio che l’automatica sottopozione ad IRAP del lavoratore autonomo che disponga di un dipendente, qualsiasi sia la natura del rapporto e qualsiasi siano le mansioni esercitate vanificherebbe l’affermazione di principio desunta dalla lettera della legge e dal testo costituzionale secondo cui il giudice deve accertare in concreto se la struttura organizzativa costituisca un elemento potenziatone ed aggiuntivo ai fini della produzione del reddito, tale da escludere che l’IRAP divenga una (probabilmente incostituzionale) “tassa sui redditi di lavoro autonomo”. Vi sono, a giudizio del Collegio, ipotesi in cui la disponibilità di un dipendente (magari part-time o con funzioni meramente esecutive) non accresce la capacità produttiva del professionista, non costituisce un fattore “impersonale ed aggiuntivo” alla produttività del contribuente, ma costituisce semplicemente una comodità per lui (e per i suoi clienti).
Si tratta certo di una valutazione difficile, assai più complessa della automatica deduzione dell’imposizione da un fatto accertabile attraverso la denuncia dei redditi e i tabulati INPS; ma questa valutazione conduce a razionalità costituzionale (ed economica i due profili sono strettamente connessi) l’imposizione.
In particolare, la sottoposizione a tassazione aggiuntiva di chi assuma un dipendente anche quando tale dipendente non determini un qualche significativo aumento del reddito e quindi manchi -secondo la tesi qui accolta- il presupposto giuridico dell’IRAP, costituirebbe una sorta di sanzione che scoraggerebbe l’assunzione di dipendenti.
Per tutte queste considerazioni il Collegio ritiene di dover rigettare il ricorso in quanto in esso non si evidenziano elementi da cui sia possibile dedurre che il dipendente part-time della contribuente abbia dato luogo ad un qualche potenziamento della sua capacità produttiva.
La complessità della questione trattata e la presenza di indirizzi giurisprudenziali non convergenti giustifica la compensazione delle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Compensa fra le parti le spese del presente grado di giudizio.