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giovedì 11 febbraio 2010

I criteri per la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato



Sentenza 22/12/2009 n. 26986 Corte di Cassazione

La fattispecie oggetto della decisione della Suprema Corte trae origine dalla vicenda di un lavoratore il quale, con ricorso depositato in data 2 ottobre 1997 dinanzi alla Pretura del lavoro di Bologna, aveva esposto di aver svolto per circa 6 anni mansioni di operatore addetto a ricevere le giocate degli scommettitori presso un'agenzia ippica, sulla base di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Il ricorrente, nello specifico, aveva dedotto che, a dispetto dell'inquadramento formale, il rapporto di lavoro tra le parti avesse rivestito i caratteri propri del lavoro subordinato. Ciò premesso, il lavoratore aveva chiesto che, previo accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, venisse dichiarato il proprio diritto all'inquadramento in un dato livello del CCNL Dipendenti Agenzie Ippiche, con conseguente condanna della società al pagamento di differenze retributive ed alla regolarizzazione contributiva della sua posizione. Con sentenza del 5 novembre 1998 il Pretore adito, ritenendo che gli elementi evidenziati dal ricorrente non consentissero di ravvisare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, aveva rigettato la domanda. Il lavoratore aveva appellato tale sentenza ma il Tribunale di Bologna, con sentenza del 1° febbraio 2006, aveva rigettato il gravame. Il lavoratore, quindi, aveva presentato ricorso in Cassazione con il quale, in primo luogo, aveva spiegato come i giudici di merito non avessero tratto le dovute conseguenze dagli elementi che risultavano dagli atti, dai documenti di causa e dalle prove acquisite. In particolare, aveva rilevato che, dal complesso delle prove orali effettuate, era emerso che il ricorrente aveva posto al servizio del datore di lavoro, in modo continuativo e sistematico, mere energie di lavoro, obbedendo agli ordini dell'imprenditore, ed aveva operato sotto la direzione ed il rigido controllo di questi, osservando un orario di lavoro controllato e disciplinato, in situazione di soggezione al potere gerarchico e disciplinare dello stesso. Peraltro, sempre secondo il ricorrente, non era condivisibile il passaggio della sentenza d'appello per il quale il lavoratore avrebbe avuto la facoltà di rimanere assente anche per lunghi periodi, senza che ciò potesse comportare conseguenze disciplinari o l'allontanamento dal lavoro, posto che, a suo dire, non esisteva alcuna interruzione nell'attività lavorativa. Nel decidere il ricorso, in senso sfavorevole alla parte ricorrente, la Suprema Corte ha richiamato in premessa il proprio orientamento secondo il quale per qualificare un rapporto lavorativo come autonomo o subordinato occorre accertare se ricorra o meno il requisito tipico della subordinazione, intesa come prestazione dell'attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore, mentre ulteriori elementi, quali ad esempio la continuità, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell'impresa e le modalità di erogazione della retribuzione non assumono rilievo determinante, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato che con il lavoro autonomo parasubordinato (cfr, ex multis, Cass. n. 9060/2004; Cass. n. 224/2001). Ha affermato inoltre la Suprema Corte che una certa organizzazione del lavoro, specie se attuata tramite disposizioni o direttive non pregnanti e assidue, non è idonea a privare il lavoratore di qualsiasi autonomia e si configura quale semplice espressione del potere di sovraordinazione e di coordinamento che caratterizza qualsiasi organizzazione aziendale, non già quale potere direttivo e disciplinare. Ciò in quanto il potere gerarchico e direttivo, secondo la Corte, non può esplicarsi in semplici direttive di carattere generale (compatibili con altri tipi di rapporto) ma deve manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, mentre il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento (anch'esso compatibile con altri tipi di rapporto) ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale (Cass. n. 20002/2004). Applicando i suesposti principi al caso di specie, la Suprema Corte ha concluso che gli elementi evidenziati dal ricorrente non fossero in grado di provare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, salvo dover procedere ad una diversa valutazione, non consentita in sede di giudizio di legittimità, di specifiche questioni di fatto. Inoltre la Corte, richiamando alcune risultanze dell'istruttoria, ha ritenuto che il giudice del merito avesse correttamente motivato il proprio iter motivazionale.
fonte http://www.guidaallavoro.ilsole24ore.com

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